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The Studio Section 3 - Berni Wrightson /1




Il piccolo negozio di dolciumi vicino casa era il paradiso per un bambino di sei anni. Accanto al consueto assortimento di dolciumi ricoperti al cioccolato e le grandi macchine rosse che distribuivano Coca Cola ghiacciata, il negozio aveva una quantità di fumetti. Il raccoglitore a vetri a destra dell’ingresso era predisposto ad accoglierli, completo di panchine di legno grandi abbastanza da permettere a un bambino di stare comodamente seduto. Se non avevi tutti e dieci i centesimi necessari a comprare il giornalino, per due cent avevi la possibilità di leggerne uno a tua scelta. Dovevi solo pagare la gentile vecchia signora che gestiva il negozio, sederti sulla panchina davanti alla vetrina e leggere finché ne avevi voglia.
Un bambino con pochi soldi in tasca ma una gran voglia di leggere ci andava con una banda di amici, ognuno pagava i due centesimi al negoziante, e tutti si passavano il giornalino tra di loro. In questo modo un bambino poteva leggere fino a una mezza dozzina di titoli prima di essere costretto a sborsare di nuovo dei soldi. Era un buon affare per i bambini e uno ancora migliore per il commerciante. Invece di soli dieci centesimi, un qualsiasi giornalino poteva fruttargliene venti o trenta in un mese. A chi interessava se gli angoli avevano le orecchie o se la copertina tendeva a staccarsi dalle graffette. Le immagini. Quelle belle immagini a quattro colori. Ecco cos’era importante.
Nella primavera del 1955, c'era anche un bambino di sei anni che trascorreva tutto il tempo che poteva sulle pagine dei fumetti. Quando gli amici gli passavano i fumetti umoristici o le storie dei supereroi, lui scuoteva la testa e continuava a leggere i suoi albi preferiti – i fumetti dell’orrore.*

Ci tenevo a riportare per intero questo quadretto di vita americana degli anni '50 del secolo scorso, poiché mi ricorda analoghi quadretti di vita quotidiana a cui ho assistito dalle nostre parti all'incirca un decennio dopo, tra gli anni '60 e gli anni '70. Non che mi risulti che da noi gli edicolanti si siano mai dati alla pratica di prestare i fumetti per una cifra irrisoria in attesa di venderli al loro prezzo di copertina, ma c'erano comunque delle strategie che i bambini mettevano in atto per riuscire a leggere il più possibile di quel che usciva nelle edicole spendendo poco o perfino niente. Non era il mio caso, ma per certi bambini di quegli anni il prestito o lo scambio erano quasi gli unici modi che avevano per procurarsi abbastanza fumetti da leggere. L'alternativa era vincerli al gioco, che dalle mie parti si traduceva soprattutto nei giocare a carte o a quello che noi chiamavamo "gioco della muriella". A volte il pallino finiva per trovarsi, con l'aumentare del banco, sulla sommità di una montagnola di albi a fumetti, che finivano tutti nelle mani di chi riuscisse a colpirlo scagliando la propria muriella.
Fine della divagazione. Torniamo adesso al contenuto ufficiale di questa serie di post, che si occupa del cammino artistico, ma anche biografico, di quattro dei più importanti autori del fumetto americano - tutti Maestri che sono, o sono stati, anche valenti illustratori e perfino pittori. Con questo decimo post ha inizio la Sezione Tre di The Studio, vale a dire che entra in scena il terzo dei quattro, che altri non è che il bambino di sei anni appassionato di fumetti dell'orrore della citazione in alto. Il suo nome è Bernie (o Berni) Wrightson e parlare di lui significa anche dare un'impronta ben definita ai post che lo riguarderanno.
Se infatti in Barry Smith si incontrano e si fondono preraffaellismo e art nouveau, se in Mike Kaluta l'art nouveau incontra l'illustrazione pulp, con Wrightson ci inoltriamo in territori abbastanza diversi, molto spesso crepuscolari a causa della predilezione dell'artista per i colori smorti, predilezione che ha contribuito, congiunta agli altri aspetti della sua arte, a procurargli quell'appellativo di Maestro del Macabro che più spesso di ogni altro ha accompagnato il suo nome nel corso dell'intera sua carriera artistica.


Berni Wrightson, Mementos (1976).


* * *


Bernard "Bernie" Albert Wrightson (che per tutta la prima parte della sua carriera artistica firmerà le sue opere con il nome di "Berni") nasce a Baltimora il 27 ottobre 1948. Figlio unico, trascorre l'infanzia in una tipica casa a schiera americana di cinque stanze divise su due piani, dove vi rimane fino all'età di sette anni. E' in questa sua prima abitazione che ha luogo uno degli eventi clou della sua esistenza, un evento che Wrightson colloca all'interno del suo quarto anno di vita e a cui lui attribuisce l'origine di gran parte di quello che poi sarebbe diventato. Lo ha raccontato, e anche messo su carta, in almeno un paio di occasioni:
Dormivo al secondo piano, in una stanza che più che una stanza era un salone situato tra la camera dei miei genitori e il bagno. Le scale vi salivano direttamente dal piano terra. C’era una lunga ringhiera su un lato e la tromba delle scale che scendeva in basso. Invece che una luce di sicurezza dove dormivo, i miei tenevano accesa una luce al piano terra che brillava attraverso le sbarre della ringhiera creando delle ombre soffuse, a raggiera, su una parete.
Una notte ho sognato di svegliarmi e rimanere sdraiato a guardare la parete e le ombre della ringhiera. Poi, un’altra ombra ha cominciato a muoversi… a muoversi sul muro. Potevo udire dei passi provenire dalle scale. La figura divenne visibile. Era una donna. Molto alta, indossava un abito di seta verde, lungo e scollato. Era senza testa. Camminando nella stanza si avvicinò al comò. Con molta attenzione aprì il cassetto superiore, si chinò, smosse un po’ di cose con le mani e lo richiuse; aprì il secondo e poi, uno dopo l’altro, tutti e cinque i cassetti.
Si allontanò dal comò e venne verso il mio letto, torcendosi le mani. C’era una cassa di giocattoli vicino al letto. Si curvò, aprì il coperchio e cominciò a frugarvi dentro. Potevo sentire i pezzi delle costruzioni muoversi qua e là… con enorme chiarezza. Poi si sollevò eretta e se ne andò.
Vissi due volte questa esperienza. Esattamente così come l’ho descritta.
Poi successe di nuovo, una terza volta. Tutto andò come in precedenza – l’ascesa dalle scale, un cassetto dopo l’altro del comò, la cassa dei giocattoli – ma stavolta, quando tornò eretta, non se ne andò. Camminò invece verso il mio letto, verso di me.
Si allungò, afferrò il bordo del materasso e lo sollevò. Rotolai contro il muro. Tenevo le mani in bocca e sentii il sapore del sangue, e mentre ero disteso, pietrificato – non potevo urlare perché continuavo a tenere le mani in bocca e, non importava quanto ci provassi, non riuscivo a chiudere gli occhi – mentre giacevo paralizzato dalla paura, lei si piegò abbastanza da permettermi di vedere l’interno del suo collo. Tutto era come doveva essere. Vidi delle vertebre, la trachea, l’esofago, le vene, tutto tagliato a filo come un salame… ma un bambino di quattro anni non sa nulla di queste cose! Per un bambino non c’è niente nel collo - soltanto un grande buco, un spazio cavo attraverso il quale il cibo ti cade nello stomaco.
Il ricordo di questo evento non mi ha mai più lasciato. Non mi piace molto palarne. Fino a due o tre anni fa lo consideravo un sogno – lo credevo un sogno – perché mi rifiutavo di prendere in considerazione ogni altra alternativa. Ora sono maturato abbastanza da riuscire ad accettare il fatto che non era per niente un sogno. Era tutto vero.**
Ho paura – in verità una mezza paura – di investigare sui precedenti abitanti della casa, o sulla storia della casa stessa. Prima di tutto, come fai a frugare nella storia di una insignificante casetta di cinque stanze di Baltimora dove la gente va e viene di continuo. La gente veniva ad abitarvi per alcuni mesi e poi se ne andava. E tuttavia penso che se scavassi a fondo, sono quasi certo che troverei la prova che quello che ho visto è un fantasma. A dirla tutta, la verità è che proprio non voglio saperlo.***

Naturalmente le preferenze di Berni, il bambino di sei anni della citazione iniziale, andavano, e questo valeva per tutti o quasi gli appassionati del genere, ai meravigliosi e colorati albi della EC Comics.
La EC Comics nacque alla fine degli anni '40 a opera di William Gaines che, alla morte del padre, Max Gaines, raccolse l'eredità della sua casa editrice, la Educational Comics, che pubblicava adattamenti a fumetti delle storie della Bibbia e biografie, sempre a fumetti, di uomini illustri. Bill Gaines continuò a usare la sigla EC, ma mutandone il senso in Entertaining Comics e stravolgendo completamente il progetto editoriale paterno. Il nuovo corso di pubblicazioni della casa editrice presentava infatti fumetti di genere fantascientifico, mystery e horror.
Ma il merito principale di Gaines figlio fu senza dubbio quello di puntare sulla qualità delle storie e dei disegni. La nuova EC Comics vide arruolati tra le sue file illustratori del calibro di Jack Davis, Wally Wood, Al Williamson, e altri ancora.
La metà degli anni '50 si sarebbe però rivelata tutt'altro che un buon momento per un appassionato di fumetti dell'orrore. Questi ultimi divennero infatti oggetto, in quel periodo, di una vera e propria caccia alle streghe che culminò in un'indagine del Congresso. Quando poi il neonato Comics Code Authority mise al bando ogni forma di violenza disegnata, i pochi albi che ancora tentavano di proporsi ancora come fumetti del mistero non erano che la pallida ombra di quelli che li avevano preceduti.
Così Berni Wrightson riassume, nelle pagine di A Look Back, la sua esperienza di quel periodo:
Non ricordo quanti albi ho letto allora di quelli che uscivano in edicola, ma alcuni mi sono rimasti ben impressi. In particolare uno con la copertina di Jack Davis in cui un tipo è gettato giù da un aeroplano. Ha le mani legate dietro la schiena e del nastro adesivo sulla bocca. Strabuzza gli occhi. L’hanno lanciato fuori dal portellone delle bombe. Dio, se mi faceva paura.
La maggior parte degli EC che leggevo erano albi usati che qualcuno lasciava in giro. Un po’ più grande, mi capitava di trovarne nei negozi dell’usato, con la metà superiore della copertina strappata. Mi costavano un nichelino. Mia madre li trovava e li buttava. Ne compravo altri e lei li trovava e li buttava. Non che me ne importasse davvero qualcosa all’epoca. Quando diventai ancora un po’ più grande, di albi EC non se ne trovavano più in giro. Ogni tanto andavo in giro a comprare fumetti e mi chiedevo che fine avesse fatto la vecchia roba stregata, i vecchi fumetti dell’orrore. Nella mia strada abitava una ragazza più grande di me di dieci anni che aveva un capanno degli attrezzi in giardino. Io giocavo con i suoi fratelli, che avevano più o meno la mia età. Non so come, ma un giorno mi portò nel capanno e mi mostrò uno scatolone pieno di fumetti EC che lei aveva collezionato quando era bambina. Me li regalò. Penso di averli tenuti per una settimana, prima che mia madre li trovasse e li buttasse. Riuscii tuttavia a salvarne un paio. Uno era il numero 27 di Haunt of Fear, con la storia Swamped, illustrata da Reed Crandall. Ma non era tanto la storia a interessarmi quanto la copertina di Graham Ingels. Raffigurava una baracca con un tipo in veranda e una mano in primo piano che emerge dalla palude. Ero capace di stare a guardarla per ore.****

* * *


* A Look Back. Underwood-Miller, 1979, 1991; Edited by Christopher Zavisa. Pg. 6-7

** Dall'intervista a J.S. per The Studio (Dragon's Dream 1979)

*** A Look Back, pg. 21

**** Op. cit., pg. 26

L'immagine di apertura del post è: Bernie Wrightson, You're new around here, aren't you? (1978).



Commenti

  1. Risposte
    1. Un altro Maestro senza dubbio, che ci riserverà delle splendide sorprese :-)

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  2. Grazie per quest'altra ottima panoramica su un autore che non conoscevo.

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    1. E' uno degli autori cult degli anni '70. Sebbene abbia prodotto cose molto belle anche nei decenni succesivi (come vedremo).

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  3. Ah questa mamma! Se sapesse quanto valgono oggi quegli albi che lei buttava nella spazzatura....

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    1. Già il solo poter riparare a certi danni delle madri sarebbe un motivo valido per inventare la macchina del tempo ;-)

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  4. Intanto... non avevo mai sentito prima tale gioco della muriella :O Nel bisogno ci si ingegna, comunque :D
    L'esperienza descritta (sognata o meno) deve essere stata per forza di cosa un punto di non ritorno per un bambino piccolo!
    La tavola mi piace parecchio, bella la scelta cromatica "pacata".

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    1. Il gioco della muriella sembra tradizione tipicamente toscana. Almeno da quel che ho trovato scritto sul dizionario Hoepli:
      muriella
      [mu-rièl-la]
      ant. morella
      s.f.
      tosc. Piastrella o sasso schiacciato, usato dai ragazzi per giocare sui marciapiedi.

      Riguardo l'arte di questo disegnatore, vedrai che è ricchissima di tesori, al pari di quella degli altri disegnatori coinvolti in questa serie di post ^_^

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  5. Ciao! Secondo me le case americane sono più infestate dei castelli europei. Ad ogni modo la domanda che mi faccio è come mai alcuni bambini vedano certe cose e altri no. La scena mi ha ricordato anche Rose Red.

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    1. Ciao Cristina! Ho dovuto cercare nel web cosa fosse Rose Red perché non la conoscevo.
      Riguardo la tua domanda, tieni presente che gli esseri umani imparano molto presto a separare l'accettabile da quel che non lo è. Certi bambini particolari, magari dall'accentuata natura di artista, hanno una censura meno forte e qualcosa viene risparmiato.

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